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Gli errori dei Templari
Gli errori e le accuse che resero terreno fertile all'attacco di FIlippo il Bello

di Pierfrancesco De Marco www.medievale.it

 Conquistata la città di Damietta sul delta del Nilo nel giugno del 1249, l'esercito cristiano guidato da Luigi IX il Re Santo, messosi in marcia verso il Cairo alla fine del mese di novembre, attende circa un mese prima di riuscire a trovare un guado utile per attraversare il Bahr a-Saghir il più largo dei canali collaterali del grande fiume egiziano, che si separa da questo poco più a valle della città di Mansura.

La notte dell'8 febbraio del 1250, ottenuta dietro compenso da un indigeno l'indicazione per poter guadare il corso d'acqua, l'esercito si mette in marcia.

Divisa dal grosso dell'armata Crociata, l'avanguardia, composta dalla cavalleria inglese guidata dal Conte Guglielmo di Salisbury e dal contingente dei Templari, è affidata agli ordini del fratello del Re, il Conte Roberto d'Artois.

Le indicazioni del Sovrano francese sono molto precise: il drappello inviato in avanscoperta, giunto sulla riva opposta del fiume, dovrà attendere il resto dell'esercito senza attaccare gli egiziani. Ma il Conte d'Artois, purtroppo per i Franchi, è una testa calda: ha seguito la Crociata per coprirsi di gloria, e non rinuncia alla possibilità di dimostrare il suo valore. Attraversato il guado, scorge in lontananza l'accampamento egiziano e comanda la carica.

Invano il Maestro dei Templari ed il gran commendatore dell'Ordine ricordano le indicazioni del Re; Roberto, accecato dalla vanagloria, non sente ragioni e, sordo ad ogni richiamo alla prudenza, si lancia all'attacco trascinandosi dietro la cavalleria Inglese ed i Templari.

Per quanto azzardata, la decisione si dimostra favorevole ai Crociati; l'alba è passata da poco e l'accampamento si sta lentamente risvegliando, ignaro del pericolo d'attacchi nemici. Lanciati al galoppo e assolutamente inattesi, i cavalieri cristiani piombano tra le tende musulmane seminando lo scompiglio, travolgendo uomini e cose.

Impreparati per organizzare un difesa e sostenere lo scontro, i guerrieri che non riescono a trovare scampo nella fuga finiscono massacrati.

Riportata la vittoria, sarebbe saggio aspettare di ricongiungersi al grosso dell'esercito, ma non sono certo queste le intenzioni del focoso Conte: l'eccitazione per il successo dell'impresa stravolge la mente di Roberto, che in un delirio d'onnipotenza è deciso a proseguire la sua avanzata ed inseguire il nemico fin dentro le mura di Mansura.

Ancora una volta i Templari raccomandano prudenza ed invitano a non rischiare oltre, rispettando gli ordini del re Luigi; ai loro richiami si uniscono gli Inglesi per bocca del loro comandante, il Conte di Salisbury, che ritiene più sicuro aspettare il Re per non compromettere la spedizione.

Da questo punto la narrazione dell'episodio (inserito nel contesto storico della prima spedizione Crociata di Luigi IX in Terra Santa) presenta due versioni leggermente differenti, pur restando invariato l'epilogo finale: seguendo controvoglia l'inarrestabile furia del Conte d'Artois, l'intera avanguardia, ad eccezione di qualche superstite, finisce massacrata tra le vie e le case di Mansura. Le conseguenze di questa sciagurata impresa, si ripercuoteranno negativamente sulla spedizione di San Luigi, contribuendo a decretarne il fallimento.

A distanza di circa sessant'anni, durante il processo che avrebbe portato alla soppressione dell'Ordine, questo e altri episodi conclusisi tragicamente per le forze Cristiane sarebbero stati citati per rivolgere ai Templari un'altra accusa infamante: quella cioè di essere stati dei cattivi consiglieri e di aver suggerito, in occasione di scelte importanti per il Regno, quelle meno indicate.

Le due principali versioni di questo disfatta, in realtà assolvono i Templari, indicando come unico responsabile del disastro Roberto d'Artois ed il suo orgoglio; i Cavalieri del Tempio avrebbero seguito loro malgrado il Conte, per restare fedeli alle consegne ricevute e non essere accusati in seguito di codardia.

Nella versione tramandata da Jean de Joinville, amico e biografo di San Luigi, il Conte avrebbe deciso subito di attaccare e avrebbe lanciato la carica, mentre i Templari che lo seguivano a breve distanza tentavano di fermarlo; il palafreniere del Conte, tale Folco du Merle che era sordo, non riusciva a sentire le grida e le raccomandazioni dei Templari, e continuava ad incitare il drappello all'attacco.

Addirittura, avendo frainteso le parole che si scambiavano il Conte Roberto, il Conte di Salisbury ed il Maestro del Tempio, avrebbe ordinato lui stesso la carica suicida.

Un'altra versione, più articolata, è quella del cronista inglese Matthew Paris, che descrive come ad un primo tentativo respinto di attaccare Mansura, sarebbe seguito una sorta di consiglio tra Guglielmo di Salisbury, il Maestro dei Templari e Roberto d'Artois, nel quale quest'ultimo avrebbe cercato di convincere i primi due a ritentare l'attacco alla città.

Al prudente rifiuto di questi, che ricordavano gli ordini del Re e ritenevano rischiosa l'impresa per le forze ridotte, il Conte d'Artois avrebbe dato in escandescenza ("..sbraitava ed imprecava vergognosamente alla maniera dei Francesi..") accusandoli di vigliaccheria ed in particolare si sarebbe rivolto con parole infamanti verso i Templari, rinfacciando loro di perseguire non già l'interesse della Terra Santa, bensì il proprio.

"Io ed i miei Fratelli non abbiamo paura Sire, e vi seguiremo: ma sappiate che dubitiamo molto di poter tornare, sia noi che Voi".

 Queste sarebbero state le parole rivolte da Guglielmo de Sonnac, Maestro del Tempio al vanaglorioso Conte, e si sarebbero dimostrate profetiche: dei circa trecento Templari del drappello in avanguardia, ne sarebbero tornati solo cinque, e tra questi Guglielmo de Sonnac che per le ferite perse un occhio.

 Benché questo resoconto sembri "ricostruito" ed arricchito di particolari volti ad esaltare la superiorità degli Inglesi sui Francesi, anch'esso non indirizza nessuna accusa specifica ai Templari, la cui sola colpa sarebbe stata quella di rimanere fedeli al compito loro assegnato.

 Di certo più impegnativo sembrerebbe il compito di difendere l'Ordine dall'accusa di essere un consigliere inaffidabile, nel caso della Battaglia di Hattin nel luglio 1187; in quest'occasione le pressioni del Maestro Gérard de Ridefort (o Ridfort) sul Re per convincerlo a dare battaglia all'esercito di Saladino, nonostante le condizioni sfavorevoli e contro il parere del consiglio di guerra, si sarebbero rivelate fatali.

I Templari pagarono un grande tributo in vite umane per lo sciagurato comportamento del loro Maestro: all'indomani della battaglia Saladino, solitamente benevole nei confronti dei prigionieri nemici, diede ordine di cercare tra questi i Cavalieri Templari ed Ospedalieri (i soli nei confronti dei quali fu veramente "feroce"), e li fece decapitare. Le loro teste, issate sulle lance, furono portate come macabri trofei dai soldati che ingiuriavano i Cristiani.

 "Voglio purificare la terra da questi due Ordini immondi, le pratiche dei quali sono prive d'utilità e non rinunceranno mai alla loro ostilità e non saranno mai utili come schiavi".

 Né la scelta disgraziata di accettare la battaglia, né le trame del Maestro del Tempio per convincere il Re, possono essere imputate in alcun modo all'Ordine, la cui fedeltà al Regno è provata dal loro estremo sacrificio.

E' forse più giusto attribuire la responsabilità del disastro al Maestro, uomo superbo ed arrivista, animato dall'orgoglio, dal risentimento personale nei confronti del signore di Tiberiade Raimondo di Tripoli (il quale suggeriva di evitare lo scontro diretto con il Saladino) e probabilmente da una forma di fanatismo religioso esasperato.

 D'altro canto lo stesso Ridefort era stato responsabile, il I maggio 1187, di un'altra impresa conclusasi tragicamente per i suoi cavalieri. Con una pattuglia di circa 150 uomini, composta da 80 Templari, una decina d'Ospedalieri e la cavalleria di Nazareth, lanciò una carica suicida contro un reparto composto da alcune migliaia di cavalleggeri musulmani (battaglia delle sorgenti di Cresson).

Invano il cavaliere Jacquelin de Mailly, indicato da alcune fonti come Maresciallo dell'Ordine ma in realtà privo di questo grado, tentò di convincere il Maestro a usare prudenza e a non rischiare in un'impresa già persa; accusato di codardia e rimproverato di " .. essere troppo affezionato ai riccioli biondi della sua testa..", il cavaliere, pur con la consapevolezza di andare incontro ad un massacro obbedì agli ordini insieme agli altri Templari, nonostante la sproporzione di forze. Solo tre cavalieri riuscirono a fare ritorno, e tra questi lo stesso Ridefort, mentre nell'impresa perse la vita il Maestro degli Ospedalieri.

 Come non ricordare tra questi episodi "critici" per l'immagine del Tempio, l'assedio di Ascalona del 1153, nel quale la condotta dei cavalieri fu aspramente criticata.

Approfittando di una breccia apertasi nel muro di cinta grazie ad un incendio, quaranta Templari entrarono per primi nella città assediata, lasciando alcuni confratelli armati ad impedire agli altri Crociati di seguirli: questo, secondo le accuse, per potersi impadronire del bottino senza dividerlo con il resto dell'armata.

Accerchiati dai difensori ed isolati per le strette vie della città dove i cavalli non riuscivano a manovrare, i Templari ed il loro Maestro furono facilmente sopraffatti. I loro corpi, in segno di sfida e spregio, vennero appesi alle mura d'Ascalona.

 Nella cronaca di Guglielmo di Tiro, il vescovo storico del XII secolo, a guidare i Templari sarebbero state la cupidigia e l'orgoglio, caratteristiche che in molti rimproveravano all'Ordine; ma il religioso non nutriva simpatia per i Templari ed è lecito che egli abbia voluto trasmettere la sua versione dei fatti, per mettere in cattiva luce la loro immagine.

 E' possibile che "solo" quaranta Templari siano riusciti ad entrare prima che la reazione dei difensori d'Ascalona riuscisse a fermare il resto dell'esercito; e d'altronde, dato che la cupidigia ed il desiderio di predare il bottino degli avversari erano caratteristiche comuni a molti guerrieri (e di questo i Templari erano consapevoli), è possibile che la loro fosse una ricognizione preventiva per saggiare le difese della città. La decisione di lasciare una guardia per impedire l'accesso agli altri Crociati, può essere stata una misura prudente volta ad evitare che l'esercito, entrando troppo presto in città, cadesse in un'imboscata. In questo caso i Templari si sarebbero "sacrificati" per la causa comune, ricevendo in cambio l'accusa di essere avidi predoni.

Solo pochi anni prima, durante la Seconda Crociata, Luigi VII aveva avuto modo di ammirare la disciplina e l'operato dei cavalieri dell'Ordine: ".. il re, da parte sua si compiaceva di vederli in azione e li imitava, e voleva che tutto l'esercito cercasse di seguire il loro esempio..." ; grazie alla presenza dei Templari alla guida dei quali stava il Maestro Everardo di Barres, la spedizione riuscì ad attraversare l'Asia minore resistendo agli attacchi dei Turchi.

 L'assedio di Ascalona, le fonti di Cresson ed il disastro di Hattin, la battaglia di Mansura, solo per citare alcuni esempi, dimostrano il sacrificio dell'Ordine del Tempio alla causa del Regno Cristiano di Gerusalemme, manifestando chiaramente l'infondatezza della presunta "amicizia" tra Templari e Musulmani.

D'altra parte, a quale scopo suggerire volutamente strategie sbagliate, quando le conseguenze di queste ricadevano su di loro, richiedendo un pesante tributo?

 

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