PRESENTAZIONE

Per poter rispondere bene alla doman­da, “Chi è Gesù?”, lo chiediamo a Lui, leggendo quello che Egli stesso ha detto dì Se nella Bibbia che è la Parola di Dio. Gesù ha detto: “Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato” (Giov. 10:9); e ancora: ” Io sono la via… nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giov. 14:6) rivelando così di essere l’unico mezzo di salvezza per l’anima perduta.

Gesù ha detto di essere Dio: “…tutti onorino il Figliuolo come onorano il Padre” (Giov. 5:22); “…se conosceste me, cono­scereste anche il Padre mio” (Giov. 8:19). “Io ed il Padre siamo uno” (Giov. 10:30).

Gesù ha detto che la Sua morte paga la pena prevista per i nostri peccati: “Il Figliuolo dell’uomo non è venuto per esser ser­vito, ma per servire, e per dare la vita sua come prezzo di riscatto per molti” (Mc 10:45). “Io sono Il buon pastore; il buon pastore mette la sua vita per le pecore ” (Gv 10:11). Gesù promette di donare la vita eterna a chiunque crede in Lui: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muoia, vivrà.” (Gv. 11:25). “Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figliuolo, affinchè chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Gv. 3:16). Queste sono soltanto alcune delle tante cose dette da Gesù durante la sua vita terrena. Ad ognuno di noi spetta approfondire la figura di Cristo e la sua incidenza nella vita personale. Scegliere Lui, vuol dire accettare le sue idee, far nostri i suoi comportamenti, per ottenere il perdono dei propri peccati, ricevere la vita eterna ed evitare un’e­ternità senza speranza.

P. Mario Rossi e comunità Dehoniana

“RABBI YESHU”

Tentiamo di produrre la Sua carta d’identità

Avviciniamoci in modo più diretto alla figura del Salvatore, come personag­gio della nostra storia. Vogliamo, in altre parole, tentare di produrre di Lui una specie di Carta d’Identità, come se si trat­tasse di uno di noi, di un cittadino comune.

Certo, il nostro tentativo avrebbe fatto sorridere i primi illu­ministi del sec. XVIII, convinti com’erano che si trattasse di una delle solite figure mitiche, poste alla base di qualsiasi religione del mondo. Avrebbe, al contrario, irritato teologi e liturgisti di epoche recenti, ritenendolo una curiosità irri­guardosa, nei confronti del Figlio di Dio.

Da alcuni decenni a questa parte, hanno invaso l’area della pub­blicistica mondiale, anche quella cattolica, opere esegeti­che per ogni gusto, dal titolo accattivante, Gesù ebreo, Gesù ebreo della Galilea, Gesù un ebreo marginale e giù con una nomenclatura di questo taglio, sfornata per solleticare una curiosità tutt’altro che da storici seri.

A noi interessa quello che gli antichi chiamavano albero genea­logico e che, nell’area ebraica generalmente non si spin­geva più indietro di una o due generazioni: Jehuda ben Simon, Simon ben Jonha, Jonha ben Zakkai. ecc. Punto e basta. A meno che non si trattasse di notabili del popolo, o teste coronate.

Schematicamente, dunque, potremmo ricostruire la scheda ana­grafica di Gesù Cristo in questo modo, riservandoci di dare, subito appresso le dilucidazioni indispensabili per una com­prensione meno approssimativa:

Nome: Yeshu

Patronimico: barYosiph

Maternità: Myriam

Luogo di nascita: Bethlem

Anno di nascita: anno 748 ab Urbe condita

Cittadinanza: giudeo

Luogo di residenza: Galilea

Stato civile: celibe

Condizione sociale: carpentiere

Statura: cm 180 circa

Costituzione fisica: robusta

Capelli: scuri

Occhi: chiari

Segni particolari: nessuno

Tutto di Gesù, interessa, sia lo studioso credente per restitui­re alle sue dimensioni umane la sua presenza in mezzo a noi, sia il devoto e il contemplativo, per innamorarsi più consapevolmente di lui.

La dottrina di Gesù

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INSEGNAVA CON AUTORITÀ

E’ venuto il momento di dare uno sguardo più attento all’ inse­gnamento del divino Maestro, non tanto sui contenuti, quan­to alla sua forma, come apparve ai suoi primi ascoltatori.

Dobbiamo tener presente, a questo proposito, che appena Gesù espresse in pubblico i suoi punti di vista, l’impressione gene­rale si palesò a due livelli: presentava una Dottrina nuova – la presentava con autorità. Ascoltiamo S. Marco: “Si stupi­vano della sua dottrina, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scri­bi” (Mc. 1. 22). Quindi, prima osservazione: la sua dottrina. Un altro evangelista specifica “che la trovavano del tutto nuova”. Per gli ebrei del tempo di Gesù, la Dottrina o la Tradizione dei Padri era sempre quella di Mosè e dei profeti: nessuno poteva mutarla. Specialmente dopo la schiavitù babilonese, l’insegna­mento religioso si è accentrato tutto sui libri ispirati. Dunque, cosa trovavano di nuovo” nell’insegnamento di Gesù? Che lui la leggeva in altra chiave, e interpretava come non si era mai sentito. Anzi, al caso, era capace addirittura di contrap­porvisi, come quella volta che dichiarò: Agli antichi fu detto … lo invece vi dico… E la frase cui si contrapponeva era trat­ta dal Levitico, un libro della Legge. Un insegnamento nuovo, anzi strano, per i più fondamentalisti … e, su questo, aveva­no ragione. In secondo luogo, lo stupore delle folle, riguardo all’insegnamento di Lui, era, che insegnava con autorità e non come i loro scribi, o rabbini. Ecco un’ altro elemento del tutto inconsueto in Israele. Il rabbino usava un metodo didattico, che potremmo definire “espositivo” non autoritario.

Egli leggeva un brano della Legge e poi lo illustrava con una car­rellata di citazioni, di maestri accreditati in Israele. Poteva espor­re un suo punto di vista, naturale, ma senza alcuna autorità. L’autorità risiedeva nella Legge, non in lui. Al contrario, Gesù, come abbiamo sentito, quando capitava il caso, non temeva di dare le sue spiegazioni con taglio di autorevolezza.

Il Padre aveva inviato Lui, a dire come dovesse intendersi la Sua Parola; quindi la sua interpretazione poteva anche suo­nare contraria a quella ufficiale. Lui “era padrone anche del sabato” quindi anche dalla Legge… Era sufficiente a sca­tenare reazioni dagli effetti dirompenti!

COSA MANGIAVA GESÙ

Non sembra, ma può rivestire un certo interesse indagare di che cosa si nutrisse il Salvatore, anche se può apparire un quesi­to ozioso, di fronte ad altri, di dimensione ben più ampia.

Cominciamo col dire che gli ebrei del suo tempo (ma anche del nostro), come in genere, tutti i semiti hanno un menù ben defi­nito dalla loro legge e dalla loro tradizione, per cui bisogna sempre distinguere fra cibi mondi e immondi, secondo che siano informi o difformi a queste leggi e queste tradizioni. Gesù si trovò davanti le antiche prescrizioni del Levitico, un libro della Bibbia, dove è precisato accuratamente: “Potrete mangiare d’ogni quadrupede che ha l’unghia bipartita, divi­sa da una fessura e che rumina” eccetto i seguenti che, pur essendo ruminanti, non hanno l’unghia bipartita: il cammel­lo, la lepre, e il porco (“perché ha l’unghia bipartita, ma non rumina”). Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri: li considererete immondi”.

Fra i pesci, sono mondi solo quelli che hanno pinne e squa­me: gli altri devono essere considerati immondi: i frutti di mare, le anguille ecc. Per gli uccelli viene presentato il nome dei proibiti: aquila, falco, civetta, corvo, struzzo, gabbiano, sparviero. gufo, alcione, pellicano, folaga, cicogna, upupa, pipistrello, etc. Per tutti questi animali di cielo e di mare viene data la sentenza: Li considererete immondi; saran­no per voi in abominio”.

Il conto non finisce qui, perchè si prosegue con gli insetti, i ret­tili, topi. Per essi c’è qualcosa in più: Chiunque li toccherà morti, rimarrà immondo fino alla sera” Lv.11,1-46).

Tutto sommato, non è che si potesse morire di fame; ma il conto diventava vero rompicapo, quando alle ingiunzioni della Legge si aggiunsero le intricatissime prescrizioni rabbini­che, pullulate lungo i secoli.

Gesù, dunque, si era nutrito a casa sua, Nazareth, a questo modo, come ogni altro ebreo osservante. Così anche nelle case dove fu, di volta in volta, ospitato: soltanto cibo secon­do la Legge.

Egli accettò questa situazione. per non creare problemi al suo mes­saggio, che era messaggio di liberazione non solo dal “princi­pe di questo mondo”, cioè dal diavolo, ma anche da queste pre­scrizioni igienico-religiose che, sorte per seri motivi, avevano o finito di assurgere a dogmi inflessibili, capaci di fuorviare l’at­tenzione dell’ uomo da problemi ben più gravi, quali la retti­tudine, la giustizia, la carità verso Dio e i fratelli…

Mangiò, dunque, e bevve quello che mangiavano e bevevano tutti gli altri suoi connazionali: anche perchè, tolto il perio­do di Nazareth, dove se lo guadagnava con le sue mani, per tutto il resto, si era rimesso all’accoglienza e benevo­lenza altrui: i due Simone (il fariseo e il lebbroso), quelli di Bethania quelli di Levi, quelli del Cenacolo di Gerusalemme etc……

Vedremo che fu un adattamento ben condizionato…

LE FATTEZZE DI GESÙ

Da una lettera di Publio Lentulo a Tiberio (31 d.C.)

Lettera di Publio Lentulo governatore della Giudea all’Imperatore sulla descrizione delle fattezze di Gesù Cristo. Lentulo è stato contemporaneo di Cristo. È un docu­mento di alto valore storico ed assai veritiero.

Ho inteso, o Cesare, che desideri sapere quanto ora ti narro – essendo qui un uomo, chiamato Gesù Cristo, che dalla gente è detto Profeta, ed i suoi discepoli lo tengono per Divino, e dicono che egli è figlio di Dio, Creatore del cielo e della terra, e di tutte le cose che in essa si trovano e sono fatte.

In verità, o Cesare, ogni giorno si sentono cose meravigliose di questo Cristo: risuscita i morti, e sana gli infermi con una sola parola. Uomo di giusta statura, è molto bello di aspetto, ed ha grande maestà nel Volto che quelli che lo mirano sono forzati ad amarlo e temerlo. Ha i capelli color della nocciola ben matura e sono distesi sino alle orecchie, e dalle orecchie sino alle spalle sono color della terra, ma più risplendenti.

Ha nel mezzo della fronte in testa, il crine spartito ad usanza dei Nazareni. Ha la fronte piana, ma molto serena; la faccia senza ruga, o macchia, accompagnato da un colore modesto. Le nari­ci e le labbra non possono da alcuno essere descritte con ragio­ne. La barba è spessa ed a somiglianza dei capelli, non molto lunga, ma spartita nel mezzo. Il suo mirare è molto severo e grave: ha gli occhi come i raggi del sole, e nessuno può guar­darlo fisso nel viso per lo splendore e quando risplende spa­venta, quando ammonisce fa piangere; si fa amare, ed è alle­gro con gravità. Dicono che non si è mai veduto ridere, ma bensì piangere. Ha le mani e le braccia molto belle; nella con­versazione contenta molti, ma si vede di rado; e quando Lo si trova, è molto modesto all’aspetto e nella persona.

È il più bell’uomo che si possa immaginare, tutto simile alla madre, la quale è la più bella giovane che si sia mai vista da queste parti.

Però se la Maestà tua, o Cesare, desidera di vederlo come negli avvisi passati mi scrivesti, fammelo sapere, che non man­cherò subito mandarlo. Di lettere fa stupire tutta la città di Gerusalemme. Egli non ha studiato giammai cosa alcuna, eppure sa tutte le scienze.

Cammina scalzo, senza cosa alcuna in testa; molti ne ridono in vederlo, ma in presenza sua nel parlare con lui tremano e stupiscono. Dicono che un tal uomo non è mai stato vedu­to, né inteso in queste parti.

In verità secondo quanto mi dicono gli ebrei non si sono sen­titi mai di tali consigli, di così gran dottrina, come insegna questo Cristo, e molti Giudei lo tengono per Divino e lo cre­dono; e molti altri me lo querelano con dire che è contro la Maestà tua, o Cesare. Io sono grandemente molestato da questi maligni Ebrei.

COME VESTIVA CRISTO?

Sembrerebbe, a prima vista, uno di quei problemi a sfon­do fittizio e privi di senso. Invece lo presentiamo come un discorso serio ed istruttivo.

Partiamo dal ricordare che un ebreo dei tempi di Gesù, anda­va vestito nella maniera più vicina al beduino di oggi; vesti ruvide e ampie, che si riducevano ad una tunica ad ampie maniche, stretta alla vita da una cintura, o da una fascia di socia­le o i giorni festivi. Sul capo un turbante o panno più o meno rettangolare, annodato in vari modi e usato per difendersi dal sole.

Lo consideravano Rabbino: vestiva come loro Un rabbino poteva sfoggiare vesti un più o meno ruvide, con tur­bante che denotava gradi, distinto, fra la società ebraica. I levi­ti e sacerdoti sembra che avessero vesti particolari solo quan­do erano di servizio al tempio, o nelle sinagoghe.

Portando il discorso sul Salvatore, c’è da tener presente che, propriamente parlando non era neppure un rabbino di pro­fessione, diciamo riconosciuto ufficialmente dalla società ebraica. Lo sapevano tutti (almeno coloro che ci tenevano a dirlo, per screditarlo) che Lui non era uscito da scuole rab­biniche, omologate dalla competente autorità: lo chiama­vano RABBI, o maestro, le folle ignoranti, colte dalla profondità e novità della sua dottrina.

Comunque Gesù passava per rabbino e, conseguentemente, doveva indossare vesti che lo mostrassero come tale: nien­te di più. Se si vuole essere chiari, si deve dire che andava vestito come tutti gli altri rabbini. Ora si è detto che i rab­bini dei tempi di Gesù non si presentavano distinti per palu­damento, ma per saggezza.

Chiunque incontrava Gesù, per le vie della Palestina lo pote­va riconoscere come un rabbino più dal codazzo di gente che lo seguiva, che da livree particolari, o da una divisa di riconoscimento. Perciò se anche noi lo avessimo incon­trato in Galilea, o a Gerusalemme non saremmo mai arri­vati a capire chi egli era dall’esterno, insomma dalla fog­gia del vestito, perchè per questo, si era uniformato per­fettamente al costume dei colleghi; anzi amiamo credere che fosse apparso come un laico qualunque, magari qua­lificato per il credito che gli avevano assicurato i discorsi di liberazione e i racconti prodigiosi che circolavano fra la sua gente.

Invariabilmente, si pensa a questo punto, come si siano regolati in proposito gli apostoli e i primi responsabili delle comu­nità cristiane dei primi secoli. Non ci vuole molto a capire che hanno seguito il sistema di Gesù, di vestirsi come gli altri. Per arrivare all’epoca delle vesti sacre, bisogna scen­dere al sec. IV quan­do ormai la Chiesa rischiava di seguire criteri pratici di potere e di prestigio.

Allora arrivano le vesti caratteristiche dei monaci, che deno­tano vittoria sulla vanità e ricchezza, nonchè del clero, che cominciava ad imitare i potentati della terra. Oggi, come tutti notate, molti dei nostri preti non usano più vesti eccle­siastiche o monastiche e preferiscono comparire in pub­blico nelle fogge più estrose e trasandate…. Il Papa e i Vescovi vogliono che i sacerdoti e i religiosi continuino con la veste talare oppure con il clergyman. Se qualcuno sem­bra disattendere questa volontà è a coscienza loro e nessu­no di noi deve permettersi critiche o riserve.

 

NEL LAGO DI GENEZARET

Gli ebrei non furono mai un popolo di navigatori, nonostante vedessero il mare a poche decine di chilometri di distanza, da qualsiasi posto della loro terra …

Si fermarono alla pesca, limitandola quasi del tutto al lago di Genezaret, attestandosi ad alcuni piccoli scali, situati sulle rive occidentali del lago: Cafarnao, Magdala, Trachea, Tiberine, e, a nord est, Bethsaida. Le rive orientali, scoscese e disa­bitate, non fornivano né scali, né porti, o punti di vendita.

Col tempo, questa povera gente riuscì ad unirsi in piccole coo­perative, che permettevano di guardare con più fiducia il domani e assicurarsi una difesa contro concorrenti e gente male intenzionata.

Una di queste cooperative la troviamo sul Vangelo e operava a Cafarnao, con soci, come i due futuri apostoli, Pietro e Andrea, che erano oriundi di Bethsaida. Ne era capo un certo Zabadjah, marito di Maria Salone e padre di altri due apo­stoli, Giovanni e Giacomo.

La pesca ai tempi di Gesù.

Poco alla volta, impararono ad usare non solo lenze, ami metalli­ci, e reti comuni, ma anche quelle a strascico, a sciabica, con le quali rastrellavano i fondali del lago, o raggiungevano profon­dità più ricche di pesci. Loro, i pescatori, se ne stavano sulla barca semi nudi (quando la stagione lo permetteva) intenti a scrutare i movimenti dei pesci e tener d’occhio il cielo.

Sapevano, in verità, che il loro lago, sprofondato ad opera di chissà quali vulcani preistorici, ad oltre 200 metri sotto l/m, appariva al loro sguardo come una enorme voragine, su cui svettavano da lontano le cime innevate del monte Ermon, o Antilibano, a oltre 2..000 s/m.

Per cui sapevano che, a causa di bruschi sbalzi di pressione atmo­sferica, si potevano scatenare tempeste e nubifragi, capaci di rendere un inferno quella immensa distesa di acque. Le due tempeste raccontate dal Vangelo mostrano i nostri pescatori incapaci di fronteggiare la situazione, nonostante ce l’avesse­ro messa tutta. Un bel problema era rappresentato, per i pesca­tori ebrei, dall’impegno di selezionare attentamente il pesce considerato “impuro”: anguille, lamprede, siluri, e poi (se pesce di mare), murene, squali, razze ecc. In ogni caso, il consuma­tore non poteva attendersi mai pesce catturato di sabato, o di giorno festivo.

Fortunatamente, il mestiere del pescatore non era compreso fra quelli disprezzati, come il pastore, l’allenatore di asini e tanti altri, dei quali finiremo di occuparci. Interessante anche la cura per conservare commestibile il pesce del Genezaret, ven­duto a Gerusalemme, dopo un viaggio di 4/5 giorni. Sappiamo, per la verità, che nella capitale c’era la cosiddetta “Porta del pesce”, dalla quale si guardava bene il pio ebreo, perché i ven­ditori erano Fenici, quindi pagani, quindi impuri.

Anche il pescatore Giovanni, futuro evangelista, aveva in città una casa ed era ben “noto” in quella del sommo pontefi­ce: non certo per altri titoli diversi da quello di commer­ciante di pesce. Gesù trascorse tutta la sua vita pubblica fra questa povera gente…

LA NOVITA: “AMATE I VOSTRI NEMICI”

Uno dei punti più originali e coinvolgenti del Vangelo è il dover amare anche i nemici. Che Gesù lo abbia proposto al suo tempo, agli ebrei soprattutto, fa parte della coinvolgente auto­nomia della sua azione e del suo insegnamento. Lo intesero dire che non anda­va più tenuto conto del detto biblico “amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico” (Mt.5,43), ma si doveva amare anche il nemico e non semplice­mente perdonarlo.

Per gli ebrei dell’epoca, “prossimo” era solo un altro della stes­sa razza; il nemico, uno straniero che aveva fatto del male a loro. L’odio era l’unica soluzione del problema. Invece Gesù lo ripropone e lo risolve a modo suo. Se Dio è Padre tuo e di colui che ti ha offeso; e Dio ha tante volte perdo­nato a lui e a te, come fai a non perdonarlo? Il suo pensie­ro va ancora più alla radice: chi ti ha offeso è tuo fratello, qui è la sostanza; l’offesa, diciamo anche il danno, che ti ha inflitto compromettono solo l’esterno di colui: gli resta sempre l’ESSENZA che è figlio dello stesso padre, quindi tuo fratello.

Certo che ragionare cosi, ad ebrei che non perdonavano ai farao­ni, a Nabucodonosor, dopo 2/3 secoli di storia, significava sfidare l’opinione pubblica, trattandosi di norme bibliche, infrangibili. Per dire il vero, la seconda parte della frase “e odierai il tuo nemico”, non c’è nella Bibbia, però c’era, senz’altro, nell’insegnamento pratico dei rabbini del suo tempo. Gesù, pertanto si ergeva a giudice della storia, per dare inizio ad una NUOVA STORIA. Da autentico ebreo, avrebbe dovuto stentare ad ammettere che si possa perdo­nare chi ci fa del male. Ma Gesù è Figlio di Dio, e, pertan­to, poteva spingere, affondando nella carne viva dell’uma­nità permalosa, odiosa, e capace di risolvere i suoi proble­mi solo a colpi di violenza, insolenza e odio.

In conclusione il problema non comporta solo il PERDONO del nemico, ma l’AMORE per esso. E’ evidente che, se dovessimo affrontarlo con le sole forze umane, dovremmo rifiutarci e prendercela con Maestro… Ma Lui non coman­da nulla al di sopra delle nostre forze e alla loro debolezza supplisce con la forza della preghiera e dei sacramenti.

 

“COMINCIARONO A DERIDERLO” (Mc 5,40)

Avevo sempre pensato, Maestro mio, che queste pessime acco­glienze te le avessero riservate solo durante la tua Passione. Invece trovo in questo passo di Marco che iniziarono molto prima. Dicesti che la bambina di Giairo dormiva…

Eri, dunque tu che impostavi contegno e messaggio in modo dirom­pente, senza lasciarti condizionare da usanze sociali, e pregiudizi religiosi, per lanciare il tuo messaggio di liberazione e salvezza. Ti eri posto, di certo, il problema che quella povera gente era stata indottrinata con “imparaticci di uomini” cioè di maestri ottusi. Non è che non ti eri accorto che fra quel­la gente semplice ci s’infilavano scribi e rabbini della corrente farisea, tuoi avversari per trovar modo di additarti al ridicolo del pubblico e denunciarti all’aristocrazia giudai­ca della capitale.

Dicesti che la bambina di Giairo dormiva…!

E con tutto ciò parlavi liberamente, senza intenzioni sovversive, senza il gusto vizioso della provocazione per la provocazione; solo perché il Padre fosse conosciuto nella sua tenerezza mater­na e non più nei tuoni e lampi del Sinai, solo perché si capisse che i privilegi d’Israele erano stati concessi per l’umanità e non per un popolo; solo perché si smettesse di portare odio al nemico, di pregare Dio che sterminasse gli avversari, ma ci rico­noscesse tutti, indistintamente figli dello stesso Padre; anche i pervertiti e le prostitute, e ci si amasse come fratelli.

Un programma assurdo per i tuoi tempi: Tu hai sfidato l’as­surdo. E dovevi pagarlo con l’onore e la vita.

Ma il Padre proprio per questo “ti ha esaltato e ti ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome”.

Questa tua sicurezza quanto mi manca! Talvolta prende forma di temerarietà; ma altre volte mi si spegne …… Aiutami a poggiare non sulle mie sicurezze, ma nel tuo sostegno. Ai primi anni, alle prime esperienze missionarie mi faceva tanto bene quella frase dello scrittore apostolico: “Conosco assai bene colui di cui mi sono fidato”.

Rinasceva, o si consolidava quel fatto di sicurezza che vede­vo indispensabile e venirti dietro, a faticare con te, per il Padre e l’avvento del suo regno.

Concedimi di non esigere di più, nella convinzione che il Padre mi ha creato in questa insicurezza, per cercare sostegno solo in lui che mi ha salvato nella speranza, lo Spirito Santo mi va santificando con aumentare in me il senso della spro­porzione fra la vetta e le forze per scalarla.

CHI E’ MIA MADRE?

Tua Madre e i tuoi volevano vederti, parlarti; ma in quel momen­to, anzi nella tua posizione di Redentore dell’umanità, ritene­sti necessario rivelare al mondo una parentela diversa con te. Tuttavia la tua domanda “Chi è mia Madre?” mi sembra di poterla cogliere anche nella dimensione di un richiamo ad una più sollecita riscoperta della sua misteriosa personalità. Tu la conoscevi, perché te l’eri creata e plasmata per te, come non è concesso a nessun mortale, e volevi invitare i tuoi seguaci a rendersi conto di quale ricchezza fosse orna­ta. L’avevi creata anche per noi, e lo avresti proclamato uffi­cialmente dalla croce. Tuttavia, dopo anni che ti seguo, non mi rendo ancora conto che, dopo di te c’è solo lei a seguir­mi e a provvedere ad ogni mia necessità.

Volevano vederti, parlarti!

Ma anche così, giungerei solo a strumentalizzar­la: le concederei vene­razione riconoscente, non amore che si trasfi­gura in contemplazione estetica, come quella che vivevi con lei. La vedevi come il capola­voro della creazione del Padre, come il riflesso più puro dello Spirito Santo, la creatura dalla quale ti derivava la ricchezza, dolcezza e armonia di quella umanità alla quale le folle non sapevano resistere.

Forse, Maestro mio, il mio rapporto con tua Madre, che è anche mia per tua concessione, se non è più condizionato alle varie pratiche devote, pur tanto importanti, ancora non ha rag­giunto quel grado di “comunione personale intima” che ci coinvolge con la persona amata.

Dipenderà dalla sola dimensione di fede nella quale si collo­ca il rapporto, cioè dal non vederla accanto a me, dal non poterle rivolgere una parola alla quale segua una risposta? In questo caso, cosa dovrei pensare del mio cammino di fede? Dall’altro lato, mi sembra di aver superato la dipen­denza popolare dalle immagine, dai santuari, dai canti maria­ni che, affettivamente hanno nutrito la mia devozione come quella degli altri. “Chi è mia Madre?”; Chi è per te mia Madre?

Io vorrei che fosse la luce dei miei occhi, per vederti meglio. Vorrei che fosse la fiamma del mio cuore, per amarti come ti amava lei. Vorrei che fosse il supplemento di tutto quel­lo che mi manca, per piacere al Padre, come te e come lei con te e con lei.

SI STUPIVANO DI TE

Non poteva essere diversamente, Maestro mio.

Gli altri rabbini usavano un metodo didattico semplicemente espositivo: una carrellata di citazioni di altri colleghi, per concludere con un’applicazione puntigliosa, magica, della legge.

Tu, al contrario, parlavi con autorità, un’autorità che non ti aveva dato il sinedrio, ma proveniva dal Padre tuo. Inoltre, quei signori parlavano più di legge che di Dio: al posto di Dio avevano messo la legge di Mosè. Tu, al contrario, parlavi sempre e solo del Padre: che amava tutte le sue crea­ture senza distinzione di razza, di cultura, di religione: cia­scuna come fosse unica.

La tua autorità proveniva dal Padre

Ne tracciasti un’immagine talmente meravigliosa, che anche a distanza di duemila anni, troviamo sempre qualcosa da scoprire.

Personalmente, ad ogni passo, mi capita una nuova scoperta sul tuo messaggio sul tuo stile comportamentale, da teme­re che si tratti di una mia pia allucinazione. Magari fosse così! Questo genere di allucinazioni è sempre effetto di un raggio troppo sfolgorante, sproporzionato alla reale consi­stenza dell’oggetto ammirato: Tu invece, sei sempre al di là, al di sopra di ogni luce creata, per cui non è possibile esa­gerare nel contemplare la tua bellezza sovrana, la tua stu­penda grandezza, la tua bontà.

Perché, o Gesù, questo stupore non riesce mai a far scom­parire del tutto dal mio orizzonte personale ogni valo­re, ogni bellezza terrena? Forse serve a non sradicarmi dal contesto dove mi hai inserito e dove devo far qual­cosa alla gloria del Padre celeste, col “dare al suo popo­lo la conoscenza della salvezza ?”. Forse perché lo stu­pore, che mi riservi per l’ultimo balenar dei miei occhi sulla scena del mondo scaturisca dal costatare per quali vie misteriose mi avrai portato a te, anche a dispetto della mia insipienza?

Mi accontento d’intuirlo da lontano: così.

“VINO NUOVO IN OTRI NUOVI”

Te ne Intendevi tanto, anche di vinificazione, Maestro?

Eppure tu pensavi ben altro! Da una critica dei farisei sui tuoi discepoli che non davano molta importanza ad osser­vanze ipocrite di digiuni, conditi di vanagloria e di odio, risalivi al discorso del tuo messaggio che non poteva esse­re coartato entro certe tradizioni giudaiche e neppure in alcu­ne norme provvisorie della Torah.

Intanto, tu stesso, nel tuo modo di realizzarti come Uomo – Dio – Salvatore mostravi di essere l’otre, cioè il contenitore nuovo, il solo in grado di contenere la novità umano divina che eri venu­to a trasmetterci, da parte del Padre. Il tuo modo di trattare con Lui, con uomini, donne, bambini, amici, avversari era qualco­sa che non trovava adeguati riscontri nella condotta dei patriar­chi del tuo popolo, nella finezza ellenica, nella maestà romana. In Te tutto era nuovo, e il tuo modo di comunicarlo agli altri era nuovo: irripetibile nella misura, riproducibile solo attra­verso la grazia che avresti concesso a ciascuno.

Da duemila anni cerchiamo d’innestare questa tua novità nei nostri otri; ma questi si invecchiano, la tua novità, no! Da quando ti ho conosciuto, ho cercato d’imitarti, ma io mi ripeto di continuo, senza riuscire mai a rinnovarmi fino in fondo. Mi ripeto nella preghiera e non sono autentico; mi ripeto nel servi­zio apostolico e perdo d’incisività; mi ripeto nell’annuncio evan­gelico e ne rendo più difficile l’assimilazione in chi mi ascolta.

In verità questo genere di vino evangelico non è nuovo per­ché non invecchia, ma perché è il prodotto di una creazio­ne incessante. E creare non spetta a me: proprio no! Concedimi, Signore, di non ripetermi mai, né con te, né con i fratelli, per non cadere nella non autenticità. Non ripeter­mi nel messaggio, di cui mi fai scoprire sempre angolazio­ni più luminose, nello slancio apostolico che rende viva l’of­ferta della tua parola, nella formulazione espressiva che non genera noia in chi mi ascolta. Sono tre momenti della novità del tuo vino, che solo tu puoi concedermi. A me l’età, la pigri­zia mentale, il timore di compromettermi troppo nella tua causa, suggeriscono ad ogni passo il gelido detto di certi anti­chi: “è meglio lasciare le cose come stanno”, ma io non sono molto, o sempre disposto a spendere qualcosa di me, per rin­novare almeno me stesso…

LO STRINGESTI

Lo stringesti al tuo seno, o Maria, appena uscito dal tuo grem­bo, ancora tiepido del calore delle tue viscere verginali. Lo avevi fin lì appena percepito nel suo dolce peso e nei movi­menti che ti facevano sussultare di una gioia recondita…

Adesso lo guardavi, con arcano stupore; ne osservavi le tene­re membra, i primi movimenti ad aria libera, il suo curvar­si su di te, in cerca di un appoggio, con la sua testolina non sorretta dal fragile corpo. Non lo avevi potuto lavare, in quel­la grotta; te lo eri stretto al seno, così, nudo perché quella percezione di tepore tenero, gli avesse dato la sensazione confusa, che non era successo nulla…… che era ancora den­tro il tuo grembo, in attesa…

Così si era addormentato, il tuo Gesù, nel primo sonno di sua vita, Lui che avrebbe trovato il suo ultimo sulla Croce. Tu ancora non lo sapevi; Lui sì… E, intanto, dormiva e tu guar­davi lontano, come inseguendo una visione, che, forse era quella di quell’ultimo sonno di tuo Figlio…

Madre santa, nel NATALE io rischio di coglierne solo il mes­saggio di gioia esteriorizzata e commercializzata dai mass media. Aiutami a cogliere il richiamo di Salvezza di que­sti santi giorni. A tuo Figlio e a te sono costati disagi e umi­liazioni, che io voglio rievocare con gratitudine.

Vedevi, forse, anche me, in quella visione della Grotta?…

 

TI SEI FATTO CARNE

Tu, Gesù, non sei semplicemente un uomo, ma il dono di Dio all’umanità!

Il tuo evangelista Giovanni poteva dire semplicemente che ti sei fatto uomo. No: ha preferito calcare la tinta, per mette­re in evidenza che dell’uomo hai assunto anche la limita­tezza e la miseria, eccetto il peccato.

Noi, invece, per desiderio, in sé legittimo, di non dimenticare mai che sei anche Dio, abbiamo ridotto quanto più possibile la dimensione umana della tua incarnazione.

Celebrazioni annuali delle feste Natalizie, non riescono sem­pre e del tutto a convincerci del ruolo insostituibile della tua umanità, per accostarci alla tua divinità. Così continuiamo a parlare di virtù evangeliche, a guardare con sospetto qual­siasi partecipazione umana alla vita spirituale, per una spe­cie di demonizzazione dell’umano, derivata da un certo manicheismo inconfessato.

Di conseguenza abbiamo preso a modello di virtù più i nostri santi che te, perché tu sei Dio e noi uomini.

Abbiamo, dunque, dimenticando che sei nato, sei vissuto, quin­di hai mangiato, bevuto, dormito, camminato, faticato, sof­ferto, amato, sei morto come uomo, non come Dio. E noi dobbiamo vivere, mangiare, bere, dormire, lavorare, sof­frire, amare, morire come uomini, non come Dio.

Quanti sforzi inutili mi sembra di aver affrontato, Maestro mio, nel mettermi in testa di poter essere povero ed umile come S. Francesco, puro come S. Luigi, fervido apostolo come S. Paolo della Croce!…

Se avessi approfondito meglio, sul Vangelo, le tue virtù, mi sarei accorto che solo tu puoi riprodurti perfettamente in me, a gloria del Padre.

Le tue virtù non sono solo “a misura d’uomo”, ma a misu­ra mia, sommamente adatte alle mie esigenze persona­li e alla mia missione. Insegnami a farlo almeno ora, con maggiore impegno e piena fiducia nella tua grazia.

SEI LA MIA VERITÀ

Mi sono trovato addos­so, fin da giovanetto, tanta sete di conosce, approfondire argo­menti scientifici, di storia, di religione e di ogni altro campo dello scibile umano, dedicando alla ricer­ca il meglio delle mie attitudini.

Ma ho dovuto ammettere che niente è assolutamente certo, nien­te assolutamente vero, se non si risolve in te, o Gesù. Se cerco luce, al di fuori di te, trovo solo tenebra e vuoto La verità è un’a­strazione, un miraggio assurdo della mente umana. Solo tu sei la Verità visibile, tangibile, o Gesù, perché diventata Persona. Solo quello che sei tu, è vero, quello che dici tu, che fai tu.

E solo in te, che la Verità si fa Parola, che non solo illumina la mente, ma dà senso alla vita e al suo mistero.

Le insidie dei tanti errori, pullulati lungo secoli e ora forse rese più viscide dal gioco beffardo dei mass media, non mi toc­cano, perché credo solo in te. La Verità esiste, perché sei tu. E tu sei l’unica Verità cui credo e crederò fino a quan­do dall’oscurità della Fede, approderò anch’io là, dove tutto diventa vero, perché la ci sei Tu.

Gesú buono, non permettere mai che io creda ad altri che a te. Fa’ che la mia mente, stanca per le ricerche e le prove della vita, non vacilli, sotto la pressione del degrado fisi­co o dell’affievolirsi della rapidità dei riflessi. Tu sei la mia verità: quella per cui credo che la vita valga anco­ra la pena di essere affrontata con dignità.

Sei l’unica mia verità, che già mi avvolgeva, prima che i miei occhi si aprissero alla luce di questo mondo.

Ora dopo tanti anni passati al tuo servizio, ho l’impressione di “vederti con i miei occhi, toccarti con le mie mani” come scri­veva il tuo apostolo Giovanni, anche lui al termine della sua missione.

CHI MI HA TOCCATO?

Tutti si accalcavano intorno a Gesù

Una domanda tua, ritenuta molto ingenua dai tuoi stessi collaboratori. Tutti si accalcavano addosso e tu ti chie­devi chi avesse osato sfiorarti la veste ruvida?

Chi non la ritenne ingenua fu una donna: colei che ti aveva toccato con tanta speranza in cuore, di guarire, da un male incurabile. E tremò, per aver osato tanto. Eppure i tuoi disce­poli e la donna dovevano sapere che con i rabbini non si scherzava: toccare una donna con un flusso di sangue o esse­re toccati da essa (che era equivalente) comportava una spe­cie di immondezza dal taglio magico sacrale, da tutti temu­to. Che, forse colei ti aveva sentito, quando avevi chiarito il tuo pensiero su di un punto così aberrante del magistero rabbinico? Per questo, rispondesti al gesto pieno di fede con un miracolo.

Marco avrebbe data la colpa della infermità così prolungata ai medici incapaci. Luca, lui stesso medico, l’avrebbe inno­centemente dirottata sulle medicine, del tutto empiriche… Tu solo, Maestro mio, arrivasti al punto giusto; poteva gua­rire solo con il miracolo operato dalla sua fiducia in te.

Io mi perdo dietro valori marginali, sciupando in questo modo, energie, tempo e attese che troverebbero la loro soluzione nella stessa natura della tua sequela. Chi mi cerca nel tuo nome, non cerca lezioni ad alto livello quanto una parola che ridoni fiducia fra tante avversità; chi mi si avvicina non pretende miracoli di guarigioni, come operavi tu, ma la finezza dell’accoglienza che usavi, per invitare tutti a veni­re al Padre con te.

Aiutami a riesprimere nel mio il tuo comportamento di acco­glienza che coinvolge nella speranza e riporta lo sguardo ad allungare con serenità su di un futuro su cui dominerà sem­pre la dolce figura paterna di Colui che ti donò a noi.

SEI LA MIA VIA

Gli antichi saggi mi hanno mostrato una loro via, per giun­gere ad una “vita beata”…

L’ho riscontrata ingannevole. I profeti d’Israele mi hanno addi­tato quella che conduce al Sinai: ma non l’ho ritenuta adat­ta ai miei piedi.

Solo tu, Maestro divino, mi hai proposto quella che conduce al Padre e, siccome sapevi che l’avrei giudicata assurda per le mie reali possibilità di deambulazione, mi hai spie­gato che quella via sei tu stesso. Allora la proposta mi è diventata concreta accettabile. Il tracciato è costituito dalla tua persona; la segnaletica me la danno le tue forti, sottili ispirazioni e il magistero della tua Chiesa.

Eppure, dopo tanti anni di cammino, non so né quanta strada ho fatto, né quanta, me ne rimane da percorrere; se sia tornato indietro. o se vado per la strada giusta. Anzi, tal­volta mi chiedo con intima angoscia se veramente io cam­mini ancora, o mi sia fermato sulla strada deserta…. For­tunatamente mi è ancora concesso di credere a quella tua Parola rassicurante: ” lo sono la Via…” che conduce al Padre. O Gesti, insegnami a tener fisso lo sguardo sulla tua per­sona e non sulla strada o sull’acqua dove cammino, come quando il tuo Pietro rischiò di annegare nel lago. Tù sei l’unica mia Via: non ne ho trovate altre, non le ho cercate, perché mi hai fatto capire che era perfetta­mente inutile cercarne fuori di te.

Che io possa orientarmi sempre, facendo perno sulla tua Parola, anche quando il mio sguardo starà per spegnersi alla luce creata, in attesa di quella degli splendori eter­ni, che mi hai promesso.

Allora affronterò il terminal della mia corsa; con la certezza che, come fin lì, la mia Via sei stato tu, sarai sempre tu la traiettoria della mia speranza eterna.

CRESCEVI ANCHE TU

Abituati come siamo a vederti, adorarti e pregarti nella tua divi­nità, o Gesù, stentiamo a farci un’idea meno confusa di come fosse possibile una tua crescita “in sapienza, in età e in grazia” (Le 2,52).

Non potevi, certo, crescere nella tua divinità: questo lo trovo comprensibile.

Ma come uomo, tutti videro – particolarmente tua Madre Maria e Giuseppe tuo padre putativo – che la tua mente si evol­veva, le tue esperienze infantili si andavano maturando, a contatto della piccola realtà della vostra casa e del vostro sperduto villaggio di Nazareth.

Tutto osservavi con i tuoi occhi profondi, tutto t’interessava di quel mondo, ad orizzonte limitato, di tutto chiedevi spiegazioni.

Intanto la tua statura cresceva, le tue energie si sprigionava­no in allegria festosa, fra lo stupore dei tuoi che sapevano chi veramente eri.

Crescevi particolarmente nella conoscenza dei misteri di Dio, nell’adesione affettuosa al Suo disegno su di te, nell’amo­re alla preghiera, sia in casa che nella sinagoga, dove ti ci conducevano ogni sabato e al tempio di Gerusalemme, quando cominciarono a portarti, in fila con i pellegrinaggi annuali.

Tua madre tenne d’occhio questa tua crescita, anche se la paro­la di Simeone le faceva intravedere dove si sarebbe spen­ta tanta armonia di grazia e di virtù. Sapeva, che quella non sarebbe stata la fine, ma il trionfo; ma lo sapeva per fede: come madre trepidava e adorava il piano di Dio su di te. La mia crescita, forse è stata solo in direzione di un situar­mi sempre più passivo nella realtà terrestre. Talvolta ho l’im­pressione di averti amato assai di più da fanciullo che ades­so, di aver imparato più a diffidare degli uomini che a com­prenderli e amarli nel tuo Nome.

Anche il dilatarsi del raggio del mio apostolato temo sia anda­to a scapito di una vera intensità di zelo per la gloria del tuo e mio Padre.

Tuttavia, ancora non mi lasci cader vittima del pessimismo di chi si arrende a se stesso. Io mi arrenderò solo a Te!

     
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